Quando il muro è troppo alto (e il ritratto non funziona)
C’è una verità che, se fai ritratti da un po’, prima o poi incontri sul campo: non tutte le foto funzionano.
C’è una verità che, se fai ritratti da un po’, prima o poi incontri sul campo:
non tutte le foto funzionano.
Anche quando la luce è perfetta, la tecnica è a posto, e davanti a te c’è una persona oggettivamente bella.
Oggi voglio raccontarti proprio una di quelle volte.
Il servizio fotografico che non è andato come speravo
Maria — nome di fantasia — è la mamma di un mio amico. Una donna riservata, elegante, un po’ introversa.
Un giorno, spinta da un periodo positivo della sua vita e da un nuovo compagno che la incoraggiava a vedersi più bella, decide di regalarsi un ritratto. E si rivolge a me.
Quando mi ha contattata, le ho chiesto che tipo di immagini avesse in mente.
Mi ha mostrato degli esempi: alcuni in linea con il mio stile naturale, altri più costruiti, con pose più “studiate”.
Ora, chi fotografa lo sa: replicare una posa vista su Pinterest o Instagram sembra semplice, ma in realtà è complicato.
Specie se chi è davanti all’obiettivo non ha esperienza. Il rischio è un effetto rigido, forzato. La spontaneità si perde, e con lei anche l’anima dello scatto.
Un inizio in salita
Il giorno del servizio ho organizzato tutto: trucco, set, musica.
Durante la fase del make-up cerco sempre di chiacchierare con la persona, per allentare la tensione. Ma con Maria… niente.
Era chiusa, distante.
Ogni tentativo di creare sintonia rimbalzava come contro un muro.
Così mi sono allontanata. Ho iniziato a preparare le luci, posizionare i pannelli, sistemare le impostazioni della fotocamera.
L’ho osservata da lontano, sperando che quel piccolo spazio l’aiutasse a rilassarsi.
Quando abbiamo iniziato a scattare, però, la tensione era di nuovo lì.
Le spalle rigide, lo sguardo trattenuto.
Ho provato con la musica che le piaceva, con le immagini d’esempio, con piccoli movimenti per scioglierla.
Ma era come cercare di entrare in una casa senza porte.
Il muro
Ho cambiato abiti, luce, fondale e nel mentre ho continuato a parlarle, a rassicurarla, a cercare di leggere i suoi gesti, il suo viso.
Ma quel muro che ci separava non si è mai abbassato.
E alla fine, le foto che ho scattato… sì, erano belle, tecnicamente corrette, ben composte, esteticamente valide, ma non raccontavano lei.
La conferma
Quando le ho consegnato le immagini, non si è piaciuta.
Me lo aspettavo.
Non perché fosse venuta male — anzi — ma perché non si riconosceva.
E un ritratto, quando riesce davvero, dovrebbe fare questo: mettere a fuoco una parte autentica di sé.
Magari anche inaspettata. Ma vera.
Parlando poi con suo figlio, ho avuto la conferma: Maria non era pronta.
Non sapeva davvero perché volesse quelle foto.
Non aveva un’intenzione chiara, né il desiderio di aprirsi davanti a un obiettivo.
E io?
Beh, anche io ho avuto la mia parte di responsabilità.
Forse non ho indagato abbastanza il suo “perché” prima ancora di fissare la data del servizio.
Forse ho dato per scontato che bastasse voler “vedersi bella”.
Ma volersi vedere e volersi raccontare sono due cose molto diverse.
La lezione (che voglio condividere con te)
Se ami fotografare le persone — anche se lo fai da amatore, anche se è “solo per passione” — prima o poi ti capiterà un ritratto così.
Uno in cui, nonostante tutto il tuo impegno, la connessione non nasce.
E allora puoi fare solo una cosa: accettarlo.
Non come fallimento, ma come parte del percorso.
Perché un ritratto vero richiede fiducia.
Richiede che la persona davanti a te sia disposta a mostrarsi, almeno un po’.
E se non succede, non sempre è colpa tua.
Ci sono muri che non si lasciano attraversare.
E va bene così.
Quello che però puoi fare — e che io ho imparato a non saltare mai — è chiedere:
"Perché vuoi queste foto?"
“Cosa stai cercando davvero?”
Un ricordo, una conferma, un cambiamento, una piccola liberazione?
A volte basta quella domanda per cambiare tutto.
E tu?
Ti è mai capitato qualcosa di simile?
Hai mai fatto fatica a connetterti con chi avevi davanti alla macchina fotografica?
O magari sei stato tu, dall’altra parte dell’obiettivo, a sentirti bloccato, non rappresentato?
Se ti va, scrivimi nei commenti.
Mi farebbe davvero piacere ascoltare anche la tua esperienza.
A presto,
Monica
P.S.
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