Le immagini che ci hanno insegnato chi dovevamo essere
Dal cinema alla pubblicità, riflessione sulle immagini che ci hanno modellate. E sul bisogno (e diritto) di crearne di nuove, nostre.
La notizia della morte di Diane Keaton ha attraversato il mondo del cinema (ma non solo) come un’eco gentile, ma potente. Una di quelle figure che non urlano, ma restano. Keaton è stata un volto indimenticabile non solo per il talento, ma per la libertà con cui ha scelto di non conformarsi: i suoi abiti maschili, la sua ironia, le rughe mai nascoste, la sua capacità di portare sullo schermo personaggi imperfetti e veri. In un’industria che da sempre impone modelli precisi – belli, giovani, impeccabili – Keaton è stata una voce stonata, e proprio per questo necessaria.
Mi ha fatto pensare a quanto le immagini, nel corso della nostra vita, abbiano il potere di definirci. Ci educano, spesso senza che ce ne accorgiamo. Il cinema, la pubblicità, le copertine dei giornali: tutto contribuisce a dirci chi dovremmo essere, come dovremmo apparire, cosa dovremmo desiderare. È un linguaggio silenzioso ma costante, che ci modella più di quanto crediamo.
Per decenni, la figura femminile è stata rappresentata come corpo da guardare, più che come presenza da ascoltare. La donna bella ma muta del cinema classico, la casalinga sorridente delle pubblicità anni ’60, la ragazza perfetta delle riviste patinate. Anche quando sembrava protagonista, era spesso un personaggio costruito a misura di sguardo maschile. L’obiettivo, in fondo, non la raccontava: la consumava.
Oggi potremmo illuderci che tutto sia cambiato. E in parte è vero: l’avvento dei social media ha moltiplicato i punti di vista, ha dato voce a chi non l’aveva, ha permesso a molte donne di raccontarsi fuori dagli schemi tradizionali. Ma allo stesso tempo ha generato nuove gabbie, più sottili e più pervasive.
L’immagine che i social ci propongono è spesso una finzione ben confezionata: corpi filtrati, vite perfette, esistenze calibrate sul consenso degli altri. Si è passati da un immaginario imposto dall’alto – cinema, televisione, pubblicità – a uno che sembra libero, ma che finisce per essere altrettanto condizionante. Perché oggi siamo noi stesse a diventare prodotto, a gestire il nostro corpo e la nostra identità come fossero un brand.
Da fotografa, ho imparato quanto lo sguardo sia una responsabilità. Fotografare significa scegliere come raccontare qualcuno – e di riflesso, come raccontare il mondo. Mi accorgo che, ogni volta che sollevo la macchina fotografica, sto prendendo posizione: decido se ripetere l’immagine che ci è stata insegnata, o provare a crearne una nuova.
Per me, la fotografia è questo spazio fragile e necessario in cui si può disimparare. Dove l’immagine non serve a compiacere, ma a comprendere; non a idealizzare, ma a restituire verità. Nei miei ritratti, soprattutto nei progetti come Ritratti in Ascolto o Donne di Crema, cerco proprio questo: permettere a chi si mostra di essere guardata non come oggetto, ma come presenza viva, complessa, autentica. È un lavoro lento, che richiede fiducia e ascolto, ma è anche una forma di resistenza.
Perché il problema non è solo chi ci guarda, ma da dove guardiamo noi. Siamo cresciuti in un mondo che ci ha mostrato modelli prefabbricati, e oggi abbiamo il compito – e il diritto – di crearne di nuovi. Immagini che non abbiano bisogno di essere perfette, ma vere. Che sappiano contenere la fragilità, l’età, la differenza, il silenzio.
Diane Keaton, con la sua eccentricità sobria e la sua coerenza, ci ha ricordato che si può restare se stessi anche quando tutto intorno ti spinge a diventare altro. Forse è questo il punto: imparare a riconoscere le immagini che ci hanno insegnato chi dovevamo essere, per iniziare finalmente a costruire quelle che raccontano chi siamo davvero.