Il peso di piacere
Quando la paura del giudizio prende il posto della libertà creativa nei ritratti.
Ciao, sono Monica, fotografa ritrattista. In questa newsletter condivido riflessioni e storie dal mio mondo fotografico — quello che succede dietro un ritratto, tra emozioni, ascolto e sguardi sinceri.
C’è una sensazione che ultimamente ritorna spesso quando scatto un ritratto: un senso di insoddisfazione, sottile ma presente. Guardo le foto e sento che, per quanto possano essere tecnicamente corrette, curate nella luce e nella composizione, manca qualcosa. E con il tempo ho capito che, molto spesso, quel qualcosa... sono io.
Non parlo di vanità né di protagonismo. Parlo di presenza creativa, di quella parte di me che ha un punto di vista, un modo di guardare, un’intenzione. E che a volte, durante lo shooting, resta in secondo piano.
Mi sono chiesta: perché succede?
Perché mi sento come se stessi trattenendo qualcosa, come se stessi seguendo una linea invisibile che mi impedisce di sperimentare, di osare, di fare quello che davvero vorrei?
La risposta è arrivata guardando il lavoro di un altro fotografo (Joel Sternfeld). Un progetto di ritratti realizzati a sconosciuti, incontrati per caso e fotografati così com’erano, nel luogo in cui si trovavano. Volti neutri, posture naturali, a volte imperfette. Nessuna costruzione. Nessuna ricerca del bello.
Eppure, una forza incredibile.
In quelle immagini ho percepito una libertà che ultimamente mi è mancata. Ho pensato: lui può fotografare senza preoccuparsi di come si vedrà la persona ritratta, perché sa che probabilmente quella persona non vedrà mai la foto.
E in quel pensiero ho riconosciuto qualcosa di familiare: il peso del giudizio.
Mi sono resa conto che, spesso, quando fotografo qualcuno, sento la responsabilità implicita di farlo piacere a se stesso. Di restituirgli un’immagine gradevole, lusinghiera, approvabile. E questo influenza le mie scelte. Scelgo tagli più sicuri. Evito pose che potrebbero risultare poco estetiche. Rinuncio a certe idee più personali o “sporche” perché temo che non vengano capite — o peggio, non vengano accettate.
Il risultato?
Un’immagine che, sì, fa piacere a chi è stato fotografato. Ma che a me lascia addosso un piccolo vuoto. Come se avessi fatto bene il mio lavoro... ma senza lasciare davvero il segno. Senza lasciare me.
Non voglio smettere di avere cura di chi fotografo, né rinunciare all’empatia che da sempre guida il mio approccio. Ma sto imparando a riconoscere quando il desiderio di compiacere diventa un limite. Quando il bisogno di approvazione prende il posto dell’espressione.
Valorizzare una persona, dopotutto, non significa nasconderne i tratti più veri. A volte significa accoglierli. Raccontarli con rispetto, ma anche con onestà. E forse la bellezza più profonda sta proprio lì: nella libertà di vedere l’altro — e di vedere me — senza paura.
Perché in ogni ritratto dovrebbe esserci anche chi guarda. E se manca chi guarda, manca tutto.
Viviamo (e fotografiamo) in vetrina
Un’altra cosa che mi sono resa conto di quanto influisca sul mio modo di fotografare è il contesto in cui viviamo oggi: tutto viene condiviso. Subito. Ogni scatto ha come destinazione potenziale i social. E per molte persone — giustamente o no — il ritratto non è più solo un ricordo, un documento, un’occasione creativa. È una vetrina.
Un luogo in cui mettersi in mostra, raccogliere approvazioni, sentirsi validati. E io, come fotografa, sento questo peso sulle spalle. È come se ogni foto dovesse funzionare per il feed, essere bella nel modo giusto, dire al mondo: “Guardami.”
Così mi ritrovo a scattare con una voce nella testa che sussurra:
“Deve piacere a lei. Ma anche ai suoi follower.”
“Deve essere bella. Esteticamente bella. Impeccabile.”
E in tutto questo, mi accorgo che il mio sguardo si fa più timido. Più strategico. Più compiacente.
È un meccanismo subdolo, perché non c'è nulla di male nel desiderare una bella foto, o nel condividerla. Ma io sento che questo contesto ha cambiato qualcosa nel mio modo di stare dietro la macchina. Anni fa scattavo per cercare, per crescere, per il puro gusto di provare. Ora, troppo spesso, mi sento come se dovessi “azzeccare la foto da post”.
E allora mi dico che forse il punto non è combattere questa realtà — ormai fa parte del nostro tempo.
Ma è tornare a difendere almeno uno spazio creativo tutto mio, dentro ogni scatto.
Anche solo un taglio, un’espressione, un momento che parli davvero il mio linguaggio.
Una porzione di ritratto che non cerca like, ma verità.
Conclusione
Non c’è nulla di sbagliato nel voler piacere. Né nel voler essere apprezzati, sui social o dal vivo. Succede a chi è davanti all’obiettivo, ma anche — più silenziosamente — a chi sta dietro.
Il punto, però, è riuscire a non perdersi.
Non dimenticare che il motivo per cui abbiamo iniziato a scattare non era ottenere consensi, ma cercare un linguaggio. Esplorare uno sguardo. Raccontare qualcosa di vero.
Oggi tutto è più veloce, più visibile, più esposto. E fotografare, anche un semplice ritratto, può diventare una prestazione. Ma io non voglio che la mia fotografia diventi solo questo. Voglio restare dentro ogni immagine che creo. Anche a costo di essere un po’ imperfetta.
Anche a costo che non piaccia a tutti.
Perché se in un ritratto manco io, quel ritratto — per quanto bello — non mi appartiene davvero.
E io voglio ricominciare a riconoscermi in ciò che faccio.