Ciao, sono Monica, fotografa ritrattista. In questa newsletter condivido riflessioni e storie dal mio mondo fotografico — quello che succede dietro un ritratto, tra emozioni, ascolto e sguardi sinceri.
Sorridere in foto è una regola non detta.
Lo facciamo quasi automaticamente. Appena prima di sentire il click, come un riflesso, le labbra si incurvano. Come se un volto serio, assorto o semplicemente neutro, non fosse “abbastanza”.
Sorridere è diventato un gesto performativo.
Un modo per dire “sto bene”, “sono felice”, “va tutto bene”. Anche quando magari non è vero. Anche quando dentro c’è stanchezza, dubbio, fragilità.
E allora mi chiedo:
Chi sono io quando non sto sorridendo?
Sono ancora me stessa?
Sono meno bella? Meno accogliente? Meno fotografabile?
Un sorriso nato da dentro
Durante una recente vacanza, mi sono trovata di fronte al mare, in un momento tutto mio. Il sole era basso, il vento leggero, il suono delle onde costante. Ho deciso di scattarmi una foto.
E lì, senza pensarci troppo, è nato un sorriso vero. Aperto. Sincero.
Non era per la macchina fotografica.
Era per me.
È in quel momento che ho pensato a tutte le volte in cui, durante un ritratto, mi sono sentita dire:
“Ma devo sorridere?”
E io ho risposto:
“No. Non devi sorridere. Devi solo essere te stessa.”
Lo dico spesso: non c’è nessun obbligo di sorridere in foto.
L’importante è mostrarsi per come si è, in quel preciso istante.
Se nasce un sorriso, è il benvenuto.
Ma se non arriva, va bene lo stesso.
Un’espressione raccolta, seria, intensa… può essere molto più potente di un sorriso forzato.
Il sorriso come automatismo
Mi sono resa conto, ancora una volta, di quanto sia automatico associare il ritratto al sorriso.
Come se ci si sentisse in dovere di apparire “al meglio”.
Come se la foto “venisse meglio” solo se sorridiamo.
Tante persone mi hanno confidato di non sentirsi a proprio agio davanti alla fotocamera.
Di non piacersi, di sentirsi rigide, di non sapere che faccia fare.
E quando arriva quel momento, quello del click, scatta un meccanismo di autodifesa: si sorride. Ma è un sorriso teso, rigido, scollegato da ciò che sentono davvero.
E si vede.
Il sorriso come aspettativa sociale
Non sorridere, soprattutto per una donna, è quasi un atto di rottura.
Una piccola ribellione.
Perché da bambine ci insegnano che dobbiamo essere solari, gentili, educate. E che il sorriso è la nostra arma migliore.
Ma io credo che ci sia una bellezza profonda anche nell’espressione che non compiace, che non deve rassicurare nessuno.
Nel volto che si concede la libertà di essere serio. O triste. O assorto.
È lì che si apre una porta nuova.
Una possibilità diversa di raccontarsi.
Un modo meno filtrato, più viscerale, di mostrarsi.
Non sorridere può essere un atto di libertà.
Un modo per reclamare la possibilità di essere viste per come siamo, non per come dovremmo apparire.
Non sto dicendo che non bisogna sorridere.
Il sorriso vero, quello che nasce da dentro, che rompe il volto e illumina gli occhi, è meraviglioso.
Ma dovrebbe essere una scelta, non un dovere.
Un modo per esprimersi, non per nascondersi.
Così ogni volta che fotografo qualcuno, cerco di creare uno spazio sicuro, dove far sentire accolte, libere, vere.
Uno spazio in cui non ci sia bisogno di sorridere per forza.
In cui anche un’espressione neutra, o pensierosa, o addirittura cupa, possa essere mostrata senza vergogna.
E tu, quante volte ti sei sentita in dovere di sorridere?
Ti sei mai chiesta chi sei quando non stai sorridendo? Ti sei mai concessa una foto in cui il tuo volto non doveva compiacere nessuno?
Provaci.
Guardati allo specchio in un momento di stanchezza, o di quiete.
Senza correggerti, senza sorridere per forza.
Resta lì, con quello che c’è.
Potresti scoprirti più vera di quanto pensavi.
Questa riflessione è nata anche per dare spazio a quei momenti in cui non ce la sentiamo.
Se ti rivedi in queste parole, raccontamelo: mi aiuterà a dare voce anche alla tua storia.